Il fato guida chi lo segue, trascina chi gli si oppone.
Seneca
Nei momenti cruciali della vita, davanti ai soprusi dell’esistenza l’uomo si chiede fatalmente «Perché?» e la risposta più antica che avanza è: «Destino!», parola vuota e densa, cui ascrivere la durata della vita, la natura della morte, l’instabilità della fortuna, la diversità dei percorsi individuali.
Il destino è inspiegabile quando distribuisce caratteristiche congenite, è assurdo quando uccide persone innocenti, è strapotente quando decreta rovine, è inflessibile quando vanifica i disegni dell’uomo. È di natura più che umana e d’abitudine è collocato «aldilà» dell’uomo: tessuto dagli dèi o scritto nelle stelle, pianificato da anime già morte o determinato da geni in esseri non ancora nati.
L’idea di destino incontra l’ostilità di chi rivendica all’uomo la libertà di auto-determinarsi, di chi colloca dentro l’individuo il razionale della sua esistenza. Eppure, anche dentro l’uomo esiste un «aldilà» della coscienza, una dimensione inconscia che interviene nelle scelte dell’individuo, che è impenetrabile alla conoscenza e più potente delle sue intenzioni.
Inconscio potrebbe essere un altro nome per indicare il destino. In esso è depositato un disegno evolutivo che si realizza negli intrecci di coincidenze significative, che sbaraglia ogni deliberazione cosciente, ma che esige sempre la partecipazione della coscienza. Perché la forza del destino è possente, ma lascia all’individuo margini di libertà tanto ampi da scegliere, perfino, tra la possibilità di vivere per niente o morire per qualcosa.