Possono coloro i quali sono addestrati a un lavoro pericoloso come quello di polizia o all’arte della guerra come i militari, farla finita suicidandosi?
La risposta è sì e spesso in misura anche più elevata rispetto ad altre professioni. Le notizie di cronaca, quelle che riescono a emergere, lo confermano.
La spiegazione non è semplice, ogni suicidio è una storia a sé, ove il fattore personale è intimamente coniugato con l’ambiente vissuto dal soggetto. Non c’è suicidio senza ambiente nel quale si verifica, nel quale si innesta, si avvolge e dal quale viene mosso come una radice di un possente albero si mescola, si innesta, si contorce nella terra che la nutre e se nutrimento non trova, finisce col morire.
E quell’ambiente e quella terra siamo tutti noi nella relazione con l’altro.
Questo saggio non offre semplici soluzioni, percorre invece il senso dell’esistenza, scava tagliente, a tratti pungente, più aspetti del vivere relazionale, pone argomenti di riflessione andando al cuore del problema perché se il suicidio non si può prevedere, lo si può però prevenire e mai sapremo quanti, grazie a una nostra vicinanza interiore, lo hanno evitato. O, di contro, lo hanno posto in essere avendo trovato in noi l’ambiente ostile.
Il potenziale suicida, infatti, dal punto di vista esistenziale, non ha più un progetto di mondo, non un progetto specifico di vita che fallisce ma è l’intero progetto di mondo che egli non possiede più e questo, purtroppo, se si concretizza in strutture ambientali rigide, fortemente gerarchiche, oppressive, con a capo dirigenti anaffettivi e senza competenze relazionali, freddi burocrati, può complicare ancor più le possibilità di uscire da questo vicolo cieco ove non si ha più alcun tempo e spazio per operare.
Un libro dopo il quale non si potrà mai più dire, dopo un suicidio: «Non ci eravamo accorti di nulla» o «Non sapevamo funzionasse così», «Non è stata colpa dell’organizzazione».